Gennaio 23, 2025
L’immaginazione aumentata – siamo davvero meno creativi oggi?
Il fascino sterile dei ganci pubblicitari.
Nell’era del bombardamento mediatico, la pubblicità si affida sempre più spesso a “ganci” pensati per catturare l’attenzione iniziale. Un frame che spiazza, un’inquadratura provocatoria, un elemento fuori contesto. Insomma, il classico clickbait visivo. E funziona, almeno per i primi tre secondi. Ma poi?
L’uso di questi espedienti può risultare sterile, privo di un legame con il racconto dello spot e, peggio ancora, senza alcun valore strategico per il posizionamento del brand. È come iniziare una storia con un urlo e poi leggere un bugiardino. Il pubblico è attratto, sì, ma poi si sente preso in giro. E si disconnette.
E allora il famigerato gancio diventa una trappola. Una trappola comunicativa che mortifica la narrazione e affossa la credibilità.
È qui che cade l’asino – anzi, il brand.
Non si tratta di moralismo o di censura: si tratta di intelligenza comunicativa. Di sapere cosa dire, come dirlo e, soprattutto, perché dirlo. Un bambino che guarda una donna in minigonna non è un insight: è uno shortcut visivo che può diventare pericolosamente ambiguo. Non genera valore, genera rumore. E il rumore, per un brand, è veleno.
Un brand maturo dovrebbe cercare la coerenza, non lo scandalo. Dovrebbe stupire, certo, ma con la forza del significato. Non con lo scarto, il fuori tema, il colpo basso. Perché oggi l’attenzione si compra facile, ma la reputazione… quella la costruisci con cura, nel tempo, e con una visione.
Un esempio concreto: lo spot U-Power
Lo spot con Diletta Leotta è il caso perfetto: parte da un’immagine sexy, coinvolge un minore, e promette stupore… ma poi arriva il messaggio commerciale sulle scarpe antinfortunistiche. Cosa c’entra tutto questo con il brand positioning? Nulla. A meno che U-Power non voglia vendere scarpe con lo stesso meccanismo con cui si promuovono reality show di quart’ordine: sollevando polvere per ottenere attenzione.
Il risultato? Si parla dello spot, ma non del prodotto. Si commenta la scena, non l’innovazione tecnica della calzatura. Si giudica il marchio, non la sua promessa. Un boomerang perfetto.
E allora?
I brand dovrebbero tornare a costruire storie. Autentiche. Che parlano alle persone, non solo alle pupille. Che non cercano il consenso virale, ma la connessione profonda. È questa la vera sfida creativa. Non “come posso far girare lo spot su Instagram?” ma “come posso entrare in relazione con il mio pubblico in modo intelligente, sensato e memorabile?”
Perché se la pubblicità è una promessa, allora il gancio senza sostanza è una bugia travestita da sorpresa.